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Addio a Jervis: Lo psichiatra che rivelò Basaglia, ma si allontanò dai basagliani

da Aipsi-Med

gardinmanicomioPer la sua onestà intellettuale fu lasciato da parte dai politici italiani.
Uno dei principali protagonisti di quella stagione innovativa della psichiatria italiana che si è svolta tra gli anni Sessanta e Settanta è stato Giovanni Jervis che ha saputo impegnarsi con coraggio. Nella prassi e nei risvolti culturali Jervis ha rappresentato in quell’epoca una voce distinta, autonoma. Se la scienza dell’anima ha molti padri, a cominciare da Freud, Jervis seppe coglierne la grandezza e i limiti, senza mai subire il fascino acritico dell’ autorità. Proprio per la sua onestà intellettuale è stato poi lasciato da parte dai politici italiani.

Jervis sosteneva che i maestri vanno amati e seguiti, ma senza trasformarli in miti ingombranti che offuscano la nostra intelligenza critica. Così si comportò con Freud e la psicoanalisi, i cui effetti a un secolo di distanza riteneva fossero diventati più culturali che scientifici. E con lo stesso metro reagì nei riguardi di Franco Basaglia. Probabilmente per la medesima ragione, per un suo imperativo etico di dire i fatti nella loro concretezza, per un dovere verso gli altri, ha scritto l’ultimo libro, “La razionalità negata: psichiatria e antipsichiatria in Italia”, insieme a storico della medicina, Gilberto Corbellini, in cui racconta la cultura e gli avvenimenti di quegli anni che si concludono con la legge 180. Si parte dall’esperienza di Gorizia, ancora nella prospettiva delle comunità terapeutiche avviate nel mondo anglosassone. Da un lato Basaglia diventa vittima della sua fama, dall’altro i media, giornali e tv, tendono a semplificare,intervistando gli psichiatri alla moda e catalogando tra i positivi quelli contro il manicomio e tra i negativi quelli a favore, facilitando lo sviluppo delle più diverse credenze come se la psichiatria delle medicine fosse oppressiva e quella delle parole no, o che parlare di genetica rispetto al comportamento umano fosse “di destra”. In questo modo vertiginosamente si emana la legge 180, spesso definita come legge Basaglia, in realtà fatta sotto il prevalente suggerimento di uno psichiatra democristiano, Bruno Orsini, che ne fu relatore in Commissione parlamentare. Questa legge nasce così senza studi epidemiologici, senza un’analisi dei dati disponibili, né previsioni di spesa. Per quello che riguarda il ruolo che su questo ebbe la politica, Jervis calca la mano sulla sinistra cattolica per la quale “tutti uguali perché figli di Dio…tutti da accettare e in definitiva nessuno chiamato mai a rispondere né di fronte agli altri, né di fronte alle leggi, regolamenti o regole qualsiasi”. Su questo dimentica il ruolo avuto dal Partito Comunista e da alcuni ben precisi suoi dirigenti, infatuati da un lato dai libri di Laing, Esterson e Cooper, ma dimentichi, dall’altro, di cosa, per esempio, poteva voler dire allora per una famiglia operaia avere un figlio schizofrenico. Il peso di tutto fu sostenuto in gran parte dalle famiglie con “non poche vere tragedie”; e fu la cuccagna delle cliniche private, di baroni universitari, di vari primari dei centri di salute mentale, delle case farmaceutiche.
Jervis sosteneva che la 180 non era una legge perfetta: non erano state previste, ad esempio, strutture per malati cronici. Jervis ci ha lasciato un’analisi precisa di come il gioco delle idee mediato dal successo, dalla politica, da tv e giornali e anche da determinate varianti religiose si possano l’un l’altro potenziare sì da creare una legge e un conformismo politicamente corretto che per decenni rimarranno calati come un magma sul modo di pensare nel nostro Paese.
Jervis ha fatto luce su una vicenda, la 180, spesso mitizzata e messa al servizio delle ideologie, andando oltre gli slogan, offrendo dati, date, fatti, numeri, e descrivendo lucidamente i corsi e ricorsi della politica psichiatrica italiana.
L’arretratezza della psichiatria italiana, l’assenza di seri progetti di formazione del personale e di una cultura della valutazione, la mancata conoscenza di ciò che nel settore della salute mentale era stato fatto e si faceva altrove sono stati considerati, per anni, con superficialità e hanno prodotto un clima di costante prevalere di ideologie e di semplificazioni.
Jervis non ha imputava tutto questo a Basaglia, che per lui era «del tutto innocente» rispetto alle conseguenze della legge nata con il suo nome. Semmai a un clima culturale e agli errori delle istituzioni. Jervis puntava il dito contro «l’illusione di una psichiatria priva di compromessi col potere».

È uscito di recente, sempre da Bollati Boringhieri, “Un filo tenace”, dedicato al padre Willy, ingegnere dell’Olivetti, capo militare del Partito d’Azione, catturato dai nazisti in Val Germanasca e fucilato dopo un’odissea di cinque mesi. Ci sono le lettere tra il condannato e la moglie Lucilla Rochat. E una postfazione dove Giovanni Jervis rievoca l’esperienza dal suo punto di vista di bambino: aveva 11 anni e non imparò a odiare. Racconta che accanto al corpo del padre fu trovata la sua Bibbia, con un addio alla moglie scritto col punteruolo: «Ci rivedremo lassù. Sia fatta la volontà di Dio». Persona riservatissima, solo dopo anni ha deciso di scrivere su qualcosa che lo riguardava intimamente. E che forse spiega molto del suo carattere e della sua vita.

“Pentito Jervis non potrà mai esser definito: egli non ha mai sbagliato. Neppure “dissociato” è un termine che gli si addice: non ha mai preso le distanze da nulla né è andato in un mondo tutto suo. Scienziato sì, questa è la parola giusta, quella che lo connota, lo definisce, lo identifica senza limitarlo d’una virgola” (Enzo Spatuzzi)
Riferimenti: La Repubblica, La Stampa, dott. Enzo Spatuzzi, prof. Michele Tansella, prof. Massimo Ammaniti, prof. Massimo Gnoli
“La casa dei matti”, Storia di un manicomio durante la guerra cecena
Basato su fatti realmente accaduti, il film narra le vicende di un gruppo di pazienti di un ospedale psichiatrico in Cecenia vicino alla frontiera, lasciati in balia del loro destino durante la prima guerra civile del 1996. Tutto il personale medico scappa a causa dei bombardamenti russi, ma i malati restano nell’unico luogo che sentono come casa. Jenna che con i suoi compagni vive, ignara di tutto, si rifugia nel mondo della sua immaginazione e si innamora di un soldato. Ma la guerra giunge fino all’interno dell’istituto. Il film ha ricevuto il Gran Premio della Giuria alla 59ma mostra del cinema di Venezia (2002). Nel cast sono presenti attori non professionisti, molti dei quali sono realmente malati.  ::::….GUARDA IL VIDEO…..::::

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