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Quella nebbia è calata sull’anima

dal Corriere Salute

La depressione non è la tristezza o la sottile malinconia che possono provare tutti nella vita. È una malattia come le altre. E come queste va accettata e curata, con prontezza e senza vergogna.
■ Come riconoscerla per individuare con precisione quali sono i suoi veri segnali e le sue conseguenze, imparando a distinguerla dalla normale tristezza, dalla malinconia o dall’ansia
■ Come capirla per sapere che va accetata e trattata come una qualsiasi altra malattia, da affrontare con tempestività, coraggio e fiducia, senza nessuna vergogna, paura o senso di colpa
■ Come curarla con l’aiuto dei farmaci e delle altre terapie a disposizione, che possono fare uscire da questo tunnel buio dell’anima nel 70-80 percento dei casi.

A tutti può capitare di alzarsi alla mattina già stanchi, senza voglia di affrontare la giornata. Oppure di essere malinconici, di attraversare un momento di pessimismo o di tristezza.
Sono stati d’animo normali, che possono capitare a chiunque in momenti difficili della vita. Se però questi stati d’animo non accennano a finire, sono sproporzionati rispetto agli eventi che li hanno provocati, o non sono riconducibili a nessun evento particolare, occorre valutarli diversamente. Soprattutto se, oltre a prolungarsi nel tempo, si accompagnano alla perdita di ogni interesse per attività che prima si trovavano piacevoli, per il cibo, per il sesso: allora è possibile che invece che a normale tristezza ci si trovi di fronte a una delle varie forme possibili di depressione.

Il sospetto, a maggior ragione, è giustificato qualora, contemporaneamente a un calo dell’umore che dura troppo a lungo, si verificano cambiamenti anche in alcune funzioni naturali: per esempio non si riesce più a dormire bene, oppure si dorme fin troppo, si perde l’appetito o, al contrario, si cercano in continuazione, con insistenza, sempre gli stessi cibi. Infine, ultimo e probabilmente più importante segnale: è legittimo sospettare una depressione soprattutto se, pur nello sconforto, nell’abbattimento, non si riesce a conservare nemmeno un po’ di ottimismo, un germe di sensazione che, comunque, le cose prima o poi andranno meglio.

Al Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica dell’Università La Sapienza di Roma hanno messo a punto un indice semplicissimo per individuare la depressione e per quantificarne la gravità: l’indice di attitudine al riso.

Quando si é depressi cambia la nostra disposizione a confrontrarci con la risata delle altre persone e sarebbe possibile correlare il livello d’incapacità di ridere col livello di gravità della malattia.
La depressione, intesa come malattia, è una condizione in cui la tristezza si è adagiata sulla vita, come una nebbia che non lascia intravedere nessuno spiraglio di luce.

È quindi diversa dai comuni cambiamenti d’umore che possono derivare da circostanze sfavorevoli della vita, non tanto per la sua intensità, quanto, soprattutto, per la sua persistenza e la scarsa capacità di reagire che insinua nelle persone che colpisce.
La differenza tra depressione-malattia e normale malinconia, dicono gli esperti, sta nella capacità della depressione di produrre derangement, parola inglese che significa modificazione, turbamento, mentre la malinconia non riesce a cambiare la nostra vita.

E’ un po’ come la differenza che corre tra una polmonite e un banale raffreddore. Ma se un tempo per la polmonite non si poteva fare nulla, oggi basta semplicemente una terapia adeguata. E lo stesso vale per la depressione, che può essere efficacemente trattata nel 70-80% dei casi, evitando lunghe e inutili sofferenze.
Ma questo non lo sanno in molti.

Avrebbero voluto saperlo, e farne esperienza, molti grandi personaggi del passato che, secondo diversi storici della medicina, hanno sofferto di depressione.
Per esempio Mozart, forse il genio musicale che meglio ha saputo rompere gli schemi con le sue note particolarmente “brillanti”.
E così Baudelaire, Kierkegaard, Leopardi, probabilmente Lincoln, forse Michelangelo.

Evidentemente invece lo sapevano e hanno potuto sperimentarlo personaggi contemporanei come gli attori Vittorio Gassman e Sandra Mondaini o il giornalista Indro Montanelli, famosi anche per la loro comunicatività tutt’altro che “grigia” e “spenta”.
Insomma tutt’altro che personaggi “grigi”, “spenti”. Tanto per chiarire che la depressione non è un tratto del carattere, ma una vera malattia, che può coinvolgere tutti, anche le personalità più di spicco, le intelligenze più vivaci.
È importante sottolinearlo, perché chi soffre di depressione spesso si sente in colpa: pensa di non riuscire a reagire per pigrizia o incapacità, crede di non essere contento di nulla perché “è viziato”. E pretende, quindi, di farcela da solo, non accettando l’idea di essere malato. È convinto di essere solo un “buono a nulla”, “un incapace”. Ed è proprio questo uno dei motivi che spesso induce chi è depresso a rinunciare alle cure, pensando che tanto per lui non ne valga nemmeno la pena.
Riuscire invece a prendere coscienza del fatto che si tratta di una malattia come tante altre è il primo passo per accettare di farsi aiutare: chi ha una polmonite non pensa certo di poter guarire da solo.
E, ancora, chi soffre di questo problema o ha qualche familiare che ne è colpito, non deve pensare di essere solo.
Sono in molti a condividere le stesse sofferenze.

È molto diffusa
La depressione, infatti, non è una malattia rara, che interessa pochi sfortunati “ai margini” della società dei felici.
È invece un disturbo piuttosto comune, con il quale sono in tanti a trovarsi a fare i conti: nelle nazioni occidentali colpisce, in media, una persona su cinque/sei, almeno una volta nel corso dell’esistenza (secondo l’Oms, nel nostro Paese ci sono almeno cinque milioni di depressi).
Tuttavia, è bene saperlo, la depressione qualche preferenza ce l’ha.

Più donne che uomini
Per esempio preferisce le donne.
Ogni tre persone depresse due sono donne e ogni anno due donne su cento si ammalano, mentre per gli uomini l’incidenza è la metà.
Tuttavia va considerato che probabilmente questi dati sono in parte influenzati dal fatto che le donne vanno più facilmente dal medico, mentre gli uomini hanno più difficoltà ad ammettere questo genere di problemi.
Inoltre, bisogna aggiungere, la predilezione della depressione per le donne vale molto meno tra gli anziani e tra i bambini: in queste fasce d’età, infatti, ambo i sessi sono colpiti più o meno nella medesima percentuale. Le differenze tra i sessi sembrano attenuarsi non soltanto per l’aumentare degli anni, ma anche con il progressivo livellamento dei ruoli sociali.

Soprattutto giovani, ma non solo
Fra le preferenze della depressione c’è anche quella per i giovani e i giovani-adulti.
La vulnerabilità dei giovani, tra l’altro, sembra aumentata negli ultimi anni, probabilmente anche a causa dei molti cambiamenti intervenuti nella struttura familiare, sociale e occupazionale, che, rispetto al passato, hanno comportato la perdita di punti di riferimento sicuri, prospettive più instabili e la necessità di un continuo confronto con una realtà che muta a velocità molto maggiore rispetto a solo pochi anni fa.
Nell’età matura, fino a 65 anni, l’incidenza della depressione diminuisce, (anche se possono essere più frequenti altri disturbi dell’umore) per poi tornare ad aumentare soprattutto nei maschi, spesso in relazione al pensionamento.
In passato c’erano meno anziani depressi: la popolazione anziana era più ridotta, ma soprattutto c’erano altri valori e un altro stile di vita.
L’anziano restava sempre il perno della famiglia, un vedovo non restava mai da solo e poteva contare su un nucleo familiare, su parenti che potevano accoglierlo.
La sua progressiva emarginazione, in una società in cui tutto si misura in base alle performance, l’ha portato a perdere sempre di più il suo ruolo.
Oggi la depressione interessa il 15% degli anziani, ma la percentuale sale fino al 40% fra quelli che si trovano in una Casa di Riposo.
Spesso sono quelli con una malattia cronica e disabili a correre più rischi, senza contare la maggior fragilità emotiva legata al progressivo invecchiamento cerebrale che aumenta la precarietà del loro equilibrio psicologico.

Famiglie predisposte
Una particolare categoria di persone più vulnerabile alla depressione è rappresentata da chi avuto altri casi di depressione in famiglia soprattutto quando si tratta di uno o di entrambi i genitori.
In questi casi, infatti, il rischio di depressione è maggiore rispetto alla popolazione normale, anche se ciò non significa che la malattia sia ereditaria in senso stretto.

Nessuna distinzione di censo e di cultura
Se i sintomi della malattia possono essere parzialmente diversi da caso a caso in base al sesso o all’età, nessuna differenza si riscontra invece in funzione del livello culturale e del ceto sociale. La depressione è una malattia molto “democratica”: colpisce tanto i ricchi quanto i poveri, sia gli scienziati sia chi non ha avuto la possibilità di studiare.
Per un certo tempo si è pensato che le persone con una minore istruzione, oppure appartenenti a classi sociali meno abbienti tendessero a manifestare i sintomi “fisici” della depressione con maggiore frequenza rispetto ai pazienti degli strati sociali più elevati.
Poi, invece, si è visto che sintomi quali la “mancanza di energia”, le variazioni di peso, il “sentirsi deboli e a pezzi”, vengono riferiti dai depressi di qualsiasi classe sociale.
Non solo: la depressione non fa nemmeno distinzioni fra i popoli.
Secondo la maggior parte degli studiosi, infatti, analizzando i sintomi con cui i disturbi dell’umore si presentano nelle diverse culture, si trovano più somiglianze che differenze.

Va accettata e curata
Giovani, donne, adulti, bambini o anziani che siano, le persone colpite da depressione, comunque, possono trovare cure efficaci. Ma a una condizione: che riconoscano la depressione e non la trascurino scambiandola per malinconia passeggera, e che ammettano con sé stesse di essere malate, di doversi far aiutare. Queste forme di “mancato riconoscimento”, infatti, fanno sì che – secondo molti studi – soltanto un caso di depressione su quattro venga correttamente riconosciuto e adeguatamente trattato. E ciò è particolarmente grave non soltanto perché prolunga inutilmente le sofferenze di chi è investito dal problema e dei suoi familiari, ma anche perché una depressione non riconosciuta e/o non curata adeguatamente può provocare guai spesso gravi: per esempio, nei giovani una depressione lasciata a sé stessa può diventare una porta aperta verso la tossidodipendenza. Senza contare che, secondo le stime più recenti, oltre il 15% dei depressi si suicida.

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